Attivismo social: quando la protesta sfocia nell’esibizionismo

Attivismo social: quando la protesta sfocia nell’esibizionismo

 

Da quando i social network si sono evoluti da semplici strumenti di comunicazione a vere e proprie rampe di lancio per idee e proteste, il numero di iniziative portate avanti su di essi ha raggiunto una cadenza pressoché quotidiana: il trionfo dell’attivismo social. Ecco, quindi, che molti volti noti hanno iniziato a cavalcare questo trend per sponsorizzare iniziative e movimenti. Purtroppo, insieme a questo, è venuta però a crescere una tendenza quasi morbosa a trasformare una protesta o un simbolo in uno sponsor personale.

 

Uso e abuso dei simboli

Partiamo subito con un esempio pratico: il Pride Month, una celebrazione dei diritti di tutti, caratterizzata dalla bandiera arcobaleno simbolo di uguaglianza e inclusione. Sono decine di migliaia i partecipanti ai cortei in giro per l’Italia, tutti accomunati da un ideale. Eppure, dalla prima celebrazione sono cambiate tante cose. Il Pride è diventato una ricorrenza sulla quale si sono buttati marchi e personaggi pubblici come squali affamati.

Sulle app come Instagram sono stati introdotti i filtri a tema Pride, sui quali la compagnia, di fatto, guadagna una grossa somma. Influencer e persino gamer si contendono il terreno per sponsorizzare le proprie pagine e le proprie attività; alcuni politici non perdono l’occasione per galoppare sul tema facendo propaganda a favore o contro. Ed ecco come un simbolo importante (quasi fondamentale) di una lotta per la pari dignità sessuale diventa quasi un brand, sbiadendo anno dopo anno.

Altro esempio: i movimenti contro la violenza sulle donne. Nomi importanti come Non Una di Meno e Non Sei Sola sono stati per diversi anni importanti riferimenti per tutte le donne vittime di abuso, acquisendo grande popolarità. Se però andiamo a vedere nomi e numeri, emerge come i simboli associati a questi movimenti siano diventati a loro volta delle calamite per gli sponsor.

Elena Morali, nota showgirl italiana, si è presentata al festival di Venezia con un hijab (velo islamico) improvvisato per portare solidarietà alle donne afghane da poco tornate sotto l’oppressione del regime talebano. Un’iniziativa che potrebbe essere considerata lodevole se non fosse un atto di esibizionismo fine a se stesso. L’attivismo social si trasforma in pura esibizione del sé, di quanto siamo bravi a sostenere quel tale gruppo discriminato.

 

Non chiamiamolo attivismo se non è tale

Queste forme di esibizionismo aggressivo sono quasi sempre legate alla necessità di far spiccare la propria immagine sopra alle altre. Il termine stesso “attivismo” (dal francese activisme) implica sostanzialmente un’attività costante. Le celebrazioni annuali di qualsiasi tipo (dal Pride alla Giornata della Memoria) servono meramente a ricordarci il passato e a riempire i nostri social di simboli. Certamente, sono iniziative fondamentali in una società democratica, ma il nostro impegno al riguardo dovrebbe essere continuo e coerente.

Celebrare una qualsiasi Giornata è un dovere sostanzialmente temporaneo. Al di fuori di quell’evento, molte persone vivono, si trascinano e dimenticano tali valori fino alla ricorrenza successiva. Nessuno pretende che l’attivismo sia una professione (sebbene alcune persone abbiano giustamente voluto renderla tale), ma la coerenza sociale dovrebbe toccare individui di tutte le età. Bisognerebbe sensibilizzare ulteriormente le nuove generazioni in ambiente didattico e separare simbologia e marketing il prima possibile.

Se questo fenomeno di trasformazione da attivismo a mercato dovesse continuare, presto potremmo perdere del tutto i valori della memoria di qualsiasi forma, trasformandola in una semplice ricorrenza da depennare sul calendario. L’attivismo parte dalle nostre idee e tale deve restare all’interno di una collettività coesa.

 

 

A cura di

Francesco Antoniozzi


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