Campagne di disinformazione: come si diffondono le fake news

Le notizie fuorvianti non sono certo nate con internet, così come le leggende metropolitane. Le falsità sono sempre state parte dell’esperienza umana e molto spesso usate per manipolare gli altri. Sia che si parli di singoli individui o intere popolazioni. L’avvento della radio e della TV, poi, ha aumentato considerevolmente la capacità di diffusione di notizie, tanto vere quanto false. Basti pensare al ruolo che questi due media hanno avuto nella propaganda novecentesca.

La situazione ha cominciato a precipitare però con la nascita di internet prima, e dei social network alcuni anni dopo. Piattaforme quali Facebook, Twitter e Instagram, popolati da centinaia di milioni di utenti, permettono virtualmente a chiunque di diffondere le proprie parole in ogni angolo del mondo. L’interazione tra i vari social, siti e media tradizionali, poi, può portare a un bombardamento di fake news alle quali è difficile opporsi. Questi coordinamenti, più frequenti di quanto sembri, non sono altro che campagne di disinformazione.

Cos’è una campagna di disinformazione

Le campagne di disinformazione sono azioni coordinate, portate avanti da più soggetti, ad esempio su un social network, fondate sull’uso di fake news o dando estrema enfasi a notizie di valore limitato. Ovviamente fenomeni simili sono sempre legati a forti interessi di chi organizza tali azioni. Molto spesso si celano interessi economici, altre volte quelli di tipo politico, come nel caso di campagne che mirano a destabilizzare un paese avversario.

Tali campagne, nei casi più avanzati, sfruttano vari media per ottenere una diffusione capillare e pressante. La strategia è quella di legittimare le idee diffuse da tale campagna: una presenza costante di tali teorie nella vita del cittadino rende quest’ultimo incline a fidarsi di quanto legge.

Come nascono le campagne di disinformazione

Il centro studi Data & Society, grazie al lavoro dei ricercatori Joan Donovan e Brian Friedberg, ha provato a capire come prendono forma queste offensive. In particolare i ricercatori hanno indagato sui precedenti statunitensi, facilmente equiparabili a quelli europei.

Punto di partenza per ogni campagna di disinformazione (e quindi manipolazione) troviamo il “source hacking“, la manipolazione delle fonti. Con tale termine si indicano varie tecniche volte principalmente a oscurare le fonti utilizzate per creare il messaggio desiderato. Questa azione si rende necessaria per permettere al messaggio di esser diffuso dalle ignare fonti d’informazione quali telegiornali, programmi di varietà o quotidiani.

Questo passaggio è fondamentale: i mass media diventano infatti complici inconsapevoli di tale campagna, diffondendo il messaggio “programmato” dai creatori di tali fake news. Proprio per questo motivo, negli ultimi anni, si richiede un controllo più accurato ai media, che troppo spesso prediligono lo scoop a un’attenta verifica delle fonti.

Quattro strategie di disinformazione

Secondo Donovan e Friedberg, varie sono le strategie usate da chi vuole mettere in atto simili campagne. La prima viene definita “viral sloganeering“: creare messaggi politici o culturali divisivi sotto forma di brevi slogan e diffonderli per influenzare gli ascoltatori e provocare una risposta delle istituzioni. I ricercatori portano l’esempio di “#IOTBW” (It’s Okay to Be White), slogan reazionario creato per fomentare lo scontro con il movimento Black Lives Matter.

La seconda tecnica è detta “leak forgery“: falsificare documenti inerenti la vita di un politico e diffonderli. Un attacco simile è stato portato avanti ad esempio contro il futuro presidente francese Macron.

La tecnica del “evidence collages” è fondata sull’utilizzo di screenshot e testi presi da testate affidabili per creare prove contraffatte di un particolare evento. Tale tecnica è comparsa, ad esempio, nel 2016 negli USA nel cosiddetto “Pizzagate”. Questa teoria del complotto affermava che i Democratici erano coinvolti in un traffico di bambini. Per sostenere questa teoria, vari utenti diffondevano infografiche falsificate.

La quarta è detta “keyword squatting“: inondare i social network con account e contenuti associati a specifici termini, così da controllare il flusso di dati online. Esponente di spicco di tale strategia è la Internet Research Agency (IRA), agenzia russa che influenza gli utenti bombardando le loro timeline con contenuti e pubblicità create a tavolino.

La diffusione delle campagne di disinformazione

La quantità di campagne di disinformazione è in notevole aumento, come confermato da un recente studio dell’università di Oxford. Secondo tale report, infatti, negli ultimi due anni il numero di Paesi coinvolti da tale fenomeno è raddoppiato, raggiungendo quota 70. In tutti questi casi, poi, ci sono prove che attribuiscono la responsabilità ad un partito politico o al governo. In Guatemala, addirittura, il governo ha violato profili social per mettere a tacere gli oppositori in rete.

Se prima tali campagne miravano solo a diffondere fake news o messaggi a favore del partito di turno, ora si arriva a bersagliare i dissidenti e i giornalisti più critici. Gli autori di questi attacchi stanno inoltre imparando a sfruttare al meglio gli algoritmi dei social, ottenendo risultati sempre migliori.

Secondo tale studio, l’unica strategia utile a ridurre l’impatto di tali campagne è rivedere drasticamente il funzionamento dei social. Le misure imposte dai singoli paesi si sono rivelate infatti inadeguate, o quantomeno insufficienti. Per capire il ruolo giocato dai social network (soprattutto alcuni), basta evidenziare che dei 70 paesi colpiti da tali campagne, in 56 esse si sono verificate su Facebook.

 

A cura di

Federico Villa


 

FONTI:

CREDITS: