Il Web dice NO! L’aborto è un diritto
È il 24 giugno 2022 e le donne statunitensi lo ricorderanno come l’inizio di un incubo distopico: la sentenza del 1973 Roe vs Wade, che riconosce a livello federale il diritto all’aborto, è stata delegittimata. D’ora in poi i singoli Stati avranno la piena autorità in materia di aborto, che si tratti delle modalità e dei tempi di esecuzioni o della sua abolizione e persecuzione come reato. Tra rabbia, manifestazioni pro-choice e sconforto, scende in campo anche il Web.
Risposta pronta. O quasi
Sono tante le società tech dai grandi nomi che si stanno mobilizzando. Per citarne solo alcune, Microsoft, Meta e Netflix si sono offerte di sostenere le spese di viaggio per le dipendenti che decideranno di ricorrere all’aborto, ma vivono in area in cui è impossibile ottenerlo legalmente. Le ritorsioni non hanno tardato a farsi sentire: lo stato del Texas vuole escludere dal suo mercato tutte quelle aziende che hanno promesso sostegno alle proprie impiegate. Potrebbero perciò ritrovarsi a pagare un prezzo molto più alto del previsto.
Eppure, tanti sono insoddisfatti per come sono state gestite le dichiarazioni post Roe. Il «Washington Post» racconta che una settimana dopo la decisione della Corte Suprema i dipendenti di Amazon, Google, Facebook e Microsoft erano notevolmente scontenti del silenzio interno che ancora regnava nelle società. Questo ritardo ha in effetti tutto il sapore di un’esitazione tattica, proprio nel momento in cui non c’è spazio per indugi.
Google vs post Roe
Una novità interessante arriva da Google. In un post del 1 luglio sul suo blog, Google avverte gli utenti di un grande cambiamento nella loro esperienza di navigazione: niente più cronologia di geolocalizzazione per gli accessi in luoghi “particolarmente personali”. Tra quest’ultimi troviamo per l’appunto le cliniche in cui si effettuano le IVG. Ciò significa che tutti coloro che visiteranno le cliniche per l’aborto non lasceranno più dietro di sé una scia di briciole digitali.
È una notizia che rallegra molti utilizzatori perché vuol dire che le autorità non potranno chiedere a Google di fornire i dati relativi agli spostamenti dei propri utenti o alla registrazione in determinate strutture sanitarie né perseguire le donne che cercheranno assistenza. Per quanto la misura non sia dichiaratamente attuata in ragione dei recenti sviluppi, sarà comunque di grande aiuto. Ma sorgono anche degli interrogativi: secondo quali criteri Google discrimina i luoghi particolarmente personali? Dal momento che non si tratta di un’aperta presa di posizione politica sull’aborto, le cliniche che assicurano questo servizio potrebbero in futuro non rientrare più nella lista. Inoltre, solo nella prima metà del 2021 sono stati emesse più di 149.000 richieste legali di accesso ai dati personali: Google li consegnati nel 78%. Eliminare la history location sarà sufficiente a proteggere la privacy degli utilizzatori, considerando che si potrebbe risalire alla visita in una clinica abortiva anche incrociando altri tipi di dati?
La casa madre di Chrome promette che la condivisione dei dati con le autorità oggi viene rifiutata quando le richieste sono “troppo estese”. Ancora una volta: come decidere quando troppo è troppo? Per esempio, cosa accadrà quando le richieste legali riguarderanno gli utenti che hanno acquistato online la pillola abortiva? È l’eterno ritorno del solito problema, la privacy. Sul Web circolando quantità incredibilmente alte di dati e tra questi tantissimi sono dati personali e/o sensibili. È curioso alzarsi in difesa del diritto all’aborto e allo stesso tempo rappresentare una minaccia così subdola alla privacy degli utenti.
L’Operazione Jane
Il gruppo di hacker attivisti Anonymous ha preso in mano la situazione per evitare il risvolto più buio di una possibile fuga di dati. Nel corso di #OpJan, annunciata a fine giugno, i dati delle app per il tracciamento del ciclo mestruale sono stati hackerati e eliminati. In questo modo non sarà possibile utilizzarli per identificare le donne che hanno abortito negli Stati in cui l’IVG è illegale. La notizia non è stata né smentita né confermata dalle app coinvolte; quale che sia la verità, è assolutamente allarmante pensare che dei dati tanto personali possano essere condivisi su richiesta legale senza il consenso dei proprietari, tanto più che la Stardust Period Tracker, l’app più scaricata negli USA, ha confermato la sua collaborazione con le autorità.
Il Web ha decisamente preso una posizione nell’era post Roe. Le donne statunitensi, soprattutto quelle che risiedono negli Stati dove l’aborto è un reato, non sono completamente abbandonate al loro destino o, peggio ancora, alle IVG casalinghe. Le aziende tech e i collettivi digitali si stanno schierando in loro difesa. Ma è bene ricordare che la posta in gioco del diritto all’aborto è anche il diritto alla privacy online.
A cura di
Marta Moresco
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