La fragilità della memoria collettiva nell’era digitale

La fragilità della memoria collettiva nell’era digitale

Fin dalle prime fasi dell’evoluzione, l’essere umano ha tenuto memoria della propria conoscenza attraverso forme di arte e scrittura: dalle pitture rupestri alla scultura, dall’architettura alla composizione dei testi. L’incredibile quantità di reperti rinvenuti nel corso della storia ci ha dato una visione più o meno chiara di “chi eravamo” molto tempo fa. Dal secondo Dopoguerra a oggi, tuttavia, la raccolta di informazioni ha subito un picco notevole grazie anche a un rapido e massiccio processo di digitalizzazione dei dati. La memoria collettiva si è fatta sempre più digitale, cosa che, insospettabilmente, non sta andando a nostro vantaggio.

 

La memoria collettiva va via con un click

Al giorno d’oggi, le informazioni sono raccolte sui siti web, a loro volta hostati sui cloud dedicati. Lo spazio di archiviazione è virtualmente infinito o comunque limitato alle capacità di calcolo e stoccaggio dell’unità di memoria. Le potenzialità, di conseguenza, sono enormi. È possibile tenere un’intera libreria di medicina in un laptop o persino su una chiavetta da portare sempre con sé. Da un lato individuiamo la comodità di tale metodo, ma dall’altro ciò rende le informazioni più prossime alla distruzione totale, più labili e fragili.

Con la cancellazione di un sito web, di cui rimangono solo archivi di backup criptati, spariscono interi terabyte di informazioni di pubblico o privato utilizzo, le quali di per sé hanno un valore culturale enorme. Le motivazioni possono essere le più disparate: il termine di un contratto di hosting del dominio, l’aggiornamento complessivo di layout e plugin del sito, la volontà materiale di cancellare quella realtà. Il tutto con un semplice click, interi terabyte di informazione cancellati con un gesto della mano.

All’inizio del 2000 era lecito aspettarsi che la memoria digitale sarebbe stata pressoché eterna, tanto che film kolossal come Matrix avevano spinto all’estremo l’idea di digitalizzazione dell’essere umano. Se però guardiamo al passato, ci rendiamo conto che l’abbandono delle unità di memoria analogiche (Floppy, CD-ROM) è stato un passo indietro più che un progresso. La degradazione delle informazioni digitali è una realtà effettiva e costante. Basti pensare a un file MP3, che perde piccole quantità di byte ogni volta che viene esportato.

 

Un progresso in salita

Come già anticipato, la causa principale di questa regressione è dovuta, paradossalmente, al progresso del mondo digitale. L’evoluzione dei sistemi di archiviazione, per esempio: interi cloud sono andati perduti solo perché due realtà erano talmente incompatibili da rendere impossibile un trasferimento. Per far fronte a ciò, sono stati creati archivi digitali di ogni tipo contenenti musica, immagini e documenti.

Si tratta comunque di una soluzione temporanea, in quanto questi stessi archivi sono costretti a stare al passo con l’evoluzione digitale, pena la loro cancellazione e scomparsa. Se poi consideriamo la censura sempre più diffusa in determinate realtà, come quella artistica o quella televisiva, il risultato è una grave manipolazione di dati che andrebbero invece limitati a un pubblico specifico.

Almeno per ora, non sembrano esserci alternative valide per ovviare a queste difficoltà. L’accelerazione del cambiamento climatico, dovuta all’ipersfruttamento delle risorse naturali, rende il ritorno ai supporti fisici cartacei un’utopia. Il riciclo, per quanto efficiente, perde materiale a ogni processo e va compensato. Persino la creazione di archivi digitali “fisici” come schede di memoria da preservare non è materialmente fattibile, poiché l’avanzamento tecnologico rischierebbe di renderle obsolete nel giro di un decennio.

Pare quindi che il destino della nostra conoscenza e memoria collettiva sia indissolubilmente legato alla nostra capacità di farne tesoro. In un futuro lontano, eventuali scavi archeologici potrebbero portare alla luce una grande quantità di tecnologia illeggibile, così come potrebbe sparire ogni traccia del cosiddetto cyberspazio.

 

 

A cura di:

Francesco Antoniozzi


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