Licenziare su Teams e WhatsApp

Licenziare su Teams e WhatsApp

Negli ultimi mesi ha destato preoccupazione il fenomeno dei licenziamenti a distanza attraverso applicazioni come Teams e WhatsApp. Tanto che il governo italiano ha preso provvedimenti. Sicuramente le istituzioni devono reagire al problema, tutelando i lavoratori e i loro diritti. In questo senso si è mossa la nuova normativa che impone alle aziende di dare al sindacato un preavviso del licenziamento di 90 giorni. Tuttavia, il fenomeno si presta ad analisi indipendentemente dalle azioni dei governi.

 

Un magazzino chiude via WhatsApp

Recentemente, il sindacato Si Cobas di Bologna ha divulgato la notizia secondo cui un magazzino del corriere TNT-FedEx è stato chiuso. L’organizzazione ha condiviso il messaggio WhatsApp, inviato l’ultimo giorno del 2021, con cui sono stati informati i membri della cooperativa che vi lavoravano. Di dubbio gusto (e altrettanto dubbia ironia) l’augurio di felice anno nuovo rivolto a persone che dal lunedì seguente sarebbero state senza lavoro. Da mesi ormai le frizioni tra l’azienda e i lavoratori creavano disservizi, mentre un altro hub di smistamento era già stato chiuso a Piacenza.

In questa sede, però, non si vuole discutere su chi abbia causato la chiusura di un intero magazzino, né sulla marcia indietro che l’azienda ha dichiarato di voler fare riaprendolo. Poniamo pure che gli scioperi dei lavoratori abbiano provocato l’inoperatività del magazzino: questo non giustifica la modalità e lo scarso preavviso in sede di fine rapporto. In questo modo infatti non si va solo contro i diritti del lavoratore, bensì si lede la dignità della persona, che non può che sentirsi umiliata da un trattamento simile. Non veder riconosciuto il proprio lavoro significa non esistere in quanto lavoratore.

 

Solo una chiamata su Teams

L’aspetto del riconoscimento del lavoro risulta ancora più evidente nel caso dei tre dipendenti licenziati tramite chiamata Teams da un’azienda in provincia di Torino. La notizia ha fatto il giro dei media, portando alla luce un modus operandi che non si considerava questione italiana. Qualcuno potrebbe ridimensionare il problema dicendo che si tratta solo di tre persone; ma, ancora una volta, non è la portata del fenomeno a contare, e quindi quanti sono i lavoratori coinvolti (un numero, in Italia, finora poco importante). Piuttosto, si rende necessario focalizzare l’attenzione sul fatto che il problema esiste, e sull’impatto che questo ha avuto.

Certamente non stiamo parlando di qualcosa che nasce dal nulla. Il licenziamento su WhatsApp o Teams non è altro che l’evoluzione di quello via e-mail. Il ragionamento da parte dell’azienda è il medesimo: la possibilità di raggiungere in tempo record un vasto numero di persone.

E, soprattutto, la percezione di non dover farsi carico del vissuto emotivo di chi si sta licenziando. Il che equivale a una mancata responsabilità, a ignorare le conseguenze delle proprie azioni sulle vite altrui. Se ora in Italia il fenomeno è di scarso interesse numerico, in altri luoghi non è così.

 

Licenziare 900 persone online

Per comprendere la direzione ormai intrapresa da molte aziende, occorre guardare a Paesi in cui la pratica è comune. L’azienda Better.com ha licenziato 900 persone in un’unica videochiamata con il CEO. Da un giorno all’altro, senza preavviso, e con motivazioni generali che sicuramente non potevano essere applicate a ogni individuo coinvolto. In sostanza, ci si appellava alla mancata efficienza e allo scarso impegno per raggiungere gli obiettivi. La notizia ha fatto il giro del mondo, creando immediato scandalo. Tra le altre cose, lo stesso dirigente ha ammesso di averlo già fatto in passato, scusandosi subito dopo per l’accaduto. Troppo tardi, in ogni caso.

 

Un fenomeno che va oltre WhatsApp e Teams

Le scuse non risarciscono i lavoratori licenziati. Ed è facile immaginare che il CEO di Better.com non si sarebbe mostrato pentito se la storia non gli avesse procurato una pessima pubblicità mediatica. Se le lacrime di coccodrillo non convincono, anche le dichiarazioni della portavoce dell’azienda torinese (di cui si è parlato poco sopra) generano perplessità: ha sostenuto infatti che il licenziamento a distanza è uno strumento di prevenzione sanitaria, lecito nel momento di emergenza pandemica attuale. Peccato che un colloquio fra tre lavoratori e un HR dell’azienda non possa certo essere definito un assembramento. In secondo luogo, e sempre credendo di giustificarsi, ha affermato che la videochiamata con ciascuno dei licenziati è durata quasi dieci minuti. Come se fosse possibile stabilire un tempo standard (minimo o massimo) per comunicare il licenziamento a una persona.

La leggerezza nel rilasciare questo tipo di dichiarazioni testimonia una mentalità sottesa e diffusa, che amplia il rischio di crescita del fenomeno. Questo discorso ne smuove allora uno più radicale, alla base di tutti i discorsi sul lavoro, e che coinvolge il digitale come strumento in grado di far emergere il problema. Il lavoro è un diritto ma non viene considerato tale: esso è piuttosto la grazia che i datori concedono ai propri dipendenti. Questi ultimi, di conseguenza, devono essere grati, accettare qualsiasi provvedimento dall’alto senza discutere.

Le istituzioni, è certo, devono condannare simili atteggiamenti e attuare delle politiche che tutelino i lavoratori. D’altro canto, ognuno deve impegnarsi a cercare di rifiutare questo meccanismo. Anche, ad esempio, imparando a usare gli strumenti forniti dal mondo digitale.

 

A cura di

Benedetta Saraco


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