Social Media Activism

Secondo un’indagine condotta nel 2020 da Save The Children in occasione del Safer Internet Day, giornata internazionale di sensibilizzazione per i rischi derivanti dall’utilizzo di Internet, il 67% degli adolescenti considera i social media un canale utile per informarsi e attivarsi rispetto a temi sociali, civici e/o politici. Anche tra gli adulti sono sempre di più gli utenti che cliccano “like”, condividono post e/o modificano la loro foto profilo su suggerimento di Facebook, impostando, ad esempio, una cornice arcobaleno come riquadro della propria immagine durante il Pride Month.

Slacktivism: Social Media e Attivismo

Ogni giorno vengono portate avanti diverse battaglie, nelle piazze, ma anche online, da parte di un numero sempre maggiore di utenti: si parla a questo proposito di “attivismo digitale”, o slacktivism, quando si fa riferimento al sostegno espresso per una causa attraverso i social media.

Il fenomeno dello Slacktivism ha origine a metà degli anni Novanta come forma di partecipazione civica accessibile facilmente anche ai più giovani, attraverso azioni che, tramite un piccolo sforzo personale, fanno sentire componente attiva della propria comunità, ad esempio piantare un albero o partecipare a una manifestazione o a uno sciopero. A seguito della maggiore diffusione delle nuove tecnologie e della nascita dei social media, il termine inizia a essere utilizzato per indicare la pratica di sostenere una causa di carattere sociale, politico, religioso attraverso mezzi virtuali e soprattutto social, con uno sforzo e/o un impegno minimo.

C’è chi vede in questo comportamento, spesso, una mera forma di narcisismo, volta a gratificare il proprio Io e a compiacere la propria coscienza, senza però generare un reale cambiamento e/o miglioramento nella società; c’è chi invece ne coglie le potenzialità come canale di divulgazione e sensibilizzazione a favore di determinate tematiche, talvolta con una ricaduta anche nella vita reale.

Minimo sforzo, massima resa

Molte sono le critiche rivolte a influencer che, un mattino, si svegliano “attivisti” e si scoprono sostenitori, nelle proprie Instagram stories, della “causa del momento”, così da aumentare il loro numero di followers.

Anche per chi non è un personaggio famoso o di interesse pubblico, i social sono effettivamente il luogo ottimale per esternare il “Sé ideale desiderato”, una sottodimensione del “Sé ideale” riconducibile alle caratteristiche identitarie che una persona vorrebbe affermare date determinate circostanze. Le interazioni sui social, siano esse un commento o la condivisione di post, storie, reel, ci consentono di essere come vorremmo che gli altri ci vedessero, di costruire una versione di Sé desiderabile, e, se vogliamo, anche politicamente corretta; il tutto, senza necessariamente sentirci chiamati in causa a dover scendere davvero a manifestare nelle piazze o a rischiare sulla nostra pelle in difesa dei nostri diritti e dei diritti di chi ha meno voce.

Sulla scia di queste considerazioni, il termine slacktivism è oggi utilizzato il più delle volte con un’accezione negativa per indicare in modo spregiativo quelle forme di “attivismo da poltrona”, come un click o una condivisione, spesso non sostenute da particolare interesse e sensibilità per le tematiche cui si riferiscono, e dal carattere debole e inefficace in termini di un reale cambiamento sociale.

“Cambiare il mondo un post alla volta”

In determinati contesti e circostanze, fare attivismo sui social media è però a tutti gli effetti uno, se non l’unico, strumento di partecipazione sociale, e il modo più sicuro per organizzare una manifestazione o una protesta, si pensi a realtà in cui scendere in piazza e promuovere liberamente forme di disobbedienza civile non è possibile a causa di regimi autoritari: esemplificativi sono gli avvenimenti legati alla Primavera Araba o alle proteste in Iran.

Le interazioni e azioni condotte attraverso i social media possono contribuire a denunciare dinamiche disfunzionali sottostanti il tessuto sociale, violazioni di diritti e precise problematiche di natura individuale e/o collettiva. Riescono a garantire maggiore visibilità ad argomenti spesso poco dibattuti dalla stampa, se non direttamente ignorati, arrivando all’attenzione di un pubblico ampio e incoraggiando più persone ad attivarsi anche off-line.

Alcune considerazioni ulteriori

Secondo alcuni studi, tra partecipazione online e le forme tradizionali di attivismo sociale e politico vi è una correlazione in alcuni casi più che in altri: ad esempio, è più probabile vedere un attivista digitale scendere a una manifestazione in strada che fermarsi a uno stand a sottoscrivere una petizione. I social media possono quindi figurare come validi strumenti per promuovere alcune forme di attivismo rispetto ad altre.

Forme di protesta online sono inoltre da considerarsi efficaci per lo più nel breve periodo: se è vero che possono fungere da cassa di risonanza rispetto a questioni specifiche, aggirando azioni di censura da parte delle autorità, come nel caso delle mobilitazioni in Medio Oriente, e contribuendo alla logistica e al coordinamento dei movimenti nelle piazze, spesso si tratta di movimenti che perdono presto sostanza, seguito ed efficacia: movimenti non strutturati, senza identità comunitarie forti alla base, al contrario di alcuni movimenti tradizionali storici.

Al di là dei possibili esiti dell’attivismo digitale, legati a fattori individuali, non necessariamente di pigrizia o apparenza, ma anche di indole personale, o a fattori esterni, più o meno controllabili, indubbie sono in ogni caso le potenzialità dei social media nel favorire la diffusione di contenuti in grado di scuotere le coscienze e far aprire gli occhi su luci e ombre della nostra società.

 

FONTI

agendadigitale.eu

insidemarketing.it

stateofmind.it

dirittodellinformazione.it 

 

CREDITS

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