Cos’è l’hatejacking

La reputazione di un’azienda, la sua immagine, è fondamentale perché possa aver successo rivolgendosi a un numero di clienti il più ampio possibile. Con l’avvento dei social network, poi, la sorte di un marchio è ancora più instabile. Basta uno spot sbagliato, un testimonial scomodo o una dichiarazione infelice di un manager e subito la rete si scatena, affossando l’azienda.

Negli ultimi anni, però, si è aggiunto un nuovo fenomeno potenzialmente disastroso per la reputazione di un marchio. I ricercatori lo chiamano hatejacking.

Cos’è l’hatejacking

Mentre le grandi aziende per anni si sono concentrati su rischi classici, come la concorrenza, non è stato notato un nuovo, crescente, pericolo: gli opportunisti, cospirazionisti e estremisti di estrema destra. E sono un rischio per più grande di quanto sembri.

Andrew Marantz, autore del libro “Antisocial” ha identificato così queste persone, che si incontrano generalmente in rete. Secondo Marantz, che scrive anche per il New Yorker, queste persone, negli ultimi anni, hanno sfruttato e danneggiato vari brand, prodotti e celebrità, tramite l’hatejacking.

Con tale espressione si indica la pratica di questi gruppi di estremisti di sfruttare particolari brand per identificarsi, rendersi più tollerabili dai cittadini, finendo per far associare i loro movimenti ai marchi stessi.

Con questo tipo di campagne si cerca anche di portare nuovi “fedeli” alla causa estremista: un’uniforme come quella del Ku Klux Klan, le teste rasate associate a bomber e anfibi sono ormai vecchie e fanno paura. Sono simboli che portano ad associazioni negative, con messaggi non condivisibili. Si cerca quindi di identificarsi con un brand nuovo, di per sé senza alcun messaggio, e piacevole dal punto di vista estetico.

Tale scelta fa leva anche sulla necessità di apparire alla moda dei più giovani, ammorbidendo inoltre il messaggio estremista.

Chi pratica l’hatejacking

Marantz ha cercato di creare un profilo di chi sfrutta brand o celebrità per identificare un movimento. Gli istigatori che ha incontrato in quasi quattro anni di ricerche sono costantemente dei reazionari compulsivi che provano piacere a distruggere ciò che incontrano. Non hanno una visione coerente di ciò che vogliono ottenere, se non la distruzione.

Tra i gruppi che utilizzano queste strategie troviamo i suprematisti bianchi e i nazionalisti, oltre ad altre organizzazioni estremiste. Lo sfruttamento dei brand può colpire ogni prodotto: cibi, bevande, squadre sportive, celebrità…

Gli organizzatori di marce o proteste, alle volte, danno anche indicazioni di “dress code”, richiedendo ad esempio di presentarsi vestiti bene: l’apparenza, spesso, vale più delle idee.

Un esempio di hatejacking: Charlottesville

Tra l’11 e il 12 agosto 2017, a Charlottesville, in Virginia, varie organizzazioni antisemite e suprematiste organizzarono un corteo. La causa della protesta era stata una decisione del consiglio comunale della città, la rimozione di tutti i monumenti Confederati dagli spazi pubblici. L’evento ebbe grande copertura mediatica e venne discusso anche nelle settimane seguenti, dopo che un suprematista uccise una donna e ferì 19 altre persone, travolgendo i contro-manifestanti con l’auto.

Sebbene molti partecipanti fossero membri del Ku Klux Klan, pochissimi portavano la veste identificativa. La maggior parte indossava una polo con pantaloni khaki. Secondo la dottoressa Cynthia Miller-Idriss, sociologa, tale scelta era volta a rendere più normale l’estetica dell’estremismo e farla diventare più appetibile.

L’utilizzo dei social network ha ovviamente facilitato il lavoro dei coordinatori di tale campagna: le foto e i video si sono diffusi molto rapidamente, associando tale abbigliamento ai movimenti di estrema destra. Il messaggio è quindi stato chiaro: per dimostrare di essere dalla parte dei manifestanti, bastava indossare gli stessi capi d’abbigliamento, di per sé privi di qualsiasi connotazione ideologica.

Tale strategia, a Charlottesville, danneggiò ad esempio il brand TIKI, sebbene non si occupi di vestiti. Tale azienda produce infatti le torce da giardino, fatte generalmente in bamboo, che spesso vengono utilizzate per dare un tono più esotico in spazi aperti. I manifestanti comparirono, a centinaia, con in mano torce simili, portando i cittadini ad associare il brand a tali gruppi.

Nonostante l’azienda abbia subito chiarito la propria posizione, distaccandosi dalle idee dei manifestanti, ancora oggi risente degli effetti di tali immagini.

Quello di Charlottesville è solo uno dei molti esempi di hatejacking. Ciò giustifica, ad esempio, un tweet insolito apparso durante l’attacco al congresso del 7 gennaio sul profilo Twitter di AXE, produttore di prodotti per l’igiene maschile della multinazionale Unilever. L’azienda si è infatti visto costretta a dichiarare la propria disapprovazione verso quanto accaduto, dopo che una foto di una sua bomboletta di deodorante abbandonata dai manifestanti in un corridoio del congresso era diventata virale.

 

A cura di

Federico Villa


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