Due anni di smart working

Due anni di smart working

Qualche mese fa Microsoft ha presentato Flowspace Pod. Si tratta di una postazione di lavoro molto particolare: consiste in un gabbiotto aperto ai lati e composto da una scrivania, una seduta e uno schermo di dimensioni notevoli. Lo scopo è mantenere anche in ufficio i vantaggi della tranquillità di casa sperimentata durante lo smart working.

Quale sarà il destino di questa modalità di lavoro che ha fatto irruzione nella vita di molti da due anni a questa parte? La curiosa proposta di Microsoft, segnale dell’incontro tra il lavoro in ufficio e quello da remoto, consente anche di avviare una riflessione ad ampio raggio su pregi e difetti del lavoro completamente digitalizzato.

 

Smart working di emergenza

Nel nostro Paese lo smart working era normato in modo preciso. L’emergenza Covid-19 ha fatto saltare le regole: non era più necessario alcun accordo tra azienda e lavoratore. Anche perché in molti casi lo smart working è stato l’unica via per continuare a lavorare in sicurezza.

La prima fase il ricorso di massa al telelavoro ha avuto l’effetto di mostrare la nostra impreparazione sul tema. Non avevamo gli strumenti per gestirlo e in una situazione di emergenza questo aspetto si è amplificato a dismisura. Talvolta il lavoratore stesso non aveva le competenze per assolvere a tutte le sue mansioni attraverso il digitale. Inoltre, per lavorare serenamente da casa servono strumenti adeguati e una connessione Internet sufficientemente stabile. Quindi il primo risultato ottenuto è stato indicare le lacune e la direzione da intraprendere per risanarle.

 

I lavoratori: favorevoli allo smart working

Da quello scenario sono trascorsi due anni e abbiamo a disposizione dati sul risultato dell’improvvisazione messa in atto. L’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche) ha recentemente rilasciato un rapporto sullo smart working nel 2021. Prima della pandemia solo l’11% dei lavoratori usufruiva del lavoro agile, dato che con l’avvento del Covid-19 balza al 32,5%. Tendenzialmente i lavoratori giudicano l’esperienza positivamente: il 46% si dice favorevole a mantenere la formula ibrida. Di questi, uno su quattro è disposto a non recarsi in ufficio tre o più giorni a settimana.

I lati positivi dell’alternanza sono molteplici e piuttosto evidenti. Il lavoratore risparmia il tempo che impiega per raggiungere il posto di lavoro, con la conseguente possibilità di investirlo in occupazioni del tempo libero. Ciò gli consente di affrontare la giornata lavorativa con un umore migliore. Legati ai trasporti sono il risparmio economico per il lavoratore e quello ambientale per le nostre città che improvvisamente durante il lockdown apparivano purificate dalle polveri sottili. Inoltre, per chi lavora in un ambiente confusionario e non ben organizzato (situazione comune a più uffici di quel che si pensa) la casa è un luogo silenzioso in cui essere più produttivi e, quindi, lavorare meglio.

 

Smart working: formazione e divario digitale

I lati negativi, se ci basiamo sul rapporto dell’INAPP, sembrano più legati alle conseguenze della mancata normazione e controllo sull’uso del lavoro agile che sulla sua pratica in sé. Infatti, è difficile colmare in poco tempo le lacune del nostro Paese in proposito.

Si pone innanzi tutto il problema della formazione, intesa su due livelli differenti. Da un lato, troviamo coloro che non sono tecnologicamente pronti ad affrontare giornate di lavoro a distanza perché non padroneggiano gli strumenti digitali che si aggiungono a quelli normalmente usati per le mansioni di lavoro. Basti pensare che la comunicazione con colleghi e clienti è interamente delegata ad app di messaggistica. Dall’altro lato, c’è lo scoglio della formazione giovanile. Cioè di coloro che hanno le competenze digitali necessarie, ma non possiedono dimestichezza con i compiti specifici del proprio ruolo lavorativo. Se non vengono sostenuti adeguatamente nell’apprendimento a distanza, rischiano di essere lasciati a loro stessi e, di fatto, di non imparare il lavoro per cui sono stati assunti.

In secondo luogo, bisogna colmare il divario digitale. Ancora il 42,5% dei lavoratori in smart working non riceve dall’azienda gli strumenti digitali necessari allo svolgimento del lavoro da casa, il che comporta un vantaggio per coloro che hanno disponibilità economiche maggiori. Non ci si può certo aspettare che tutte le aziende, specie quelle più piccole e già in crisi, riescano a investire in supporti tecnologici per i dipendenti. Deve essere allora lo Stato a intervenire. Un lavoratore che possiede strumenti adeguati lavora meglio e, a lungo andare, genera profitto per l’azienda.

 

La sospensione della normativa sul lavoro agile

La sospensione della normativa vigente si è fatta sentire: il 36,8% di coloro che lavorano da casa non ha in atto con l’azienda un accordo formalizzato sullo smart working. Spesso i criteri del lavoro agile sono lasciati alla decisione dei superiori. In una percentuale non trascurabile (37,4%) il lavoratore non può scegliere se lavorare da casa, per quanti e in quali giorni. Inoltre, molti segnalano la necessità di essere reperibili anche in momenti destinati alle pause, che dovrebbero comportare la disconnessione dalle applicazioni di lavoro. Ciò aumenta il numero di ore lavorative senza far crescere parallelamente il compenso economico, ma anzi contaminando il tempo libero del dipendente con il tempo del lavoro.

Infine, la possibilità per le aziende di non rendere conto del lavoro da remoto dei dipendenti le mette nella posizione di richiedere con più facilità al lavoratore prestazioni serali o nel fine settimana. Difficile quantificare questi straordinari perché lo smart working durante l’emergenza sanitaria prevede che si possa non segnalare in modo ufficiale l’inizio e la fine della prestazione lavorativa giornaliera. Spesso (32,8%) quando il lavoratore la segnala all’azienda si tratta di una semplice autocertificazione verbale che nulla ha di ufficiale.

 

La direzione del lavoro agile

Quando lo stato di emergenza finirà ma il lavoro agile rimarrà una modalità presente su vasta scala occorrerà ripensare la normativa in modo da risolvere i problemi elencati. Quella vigente prima della pandemia era infatti calibrata su un Paese che faceva scarso uso dello smart working.

Proprio in questo senso ci si sta muovendo per definire la formula ibrida. Lo scopo è concentrarsi su diversi punti raggruppabili in due insiemi.

  • Gli aspetti legati ai diritti dei lavoratori. Per esempio, la formula ibrida sarà su base volontaria e il lavoratore prenderà parte alla decisione della consistenza dello smart working. Inoltre, anche questo sarà compreso nei rapporti sindacali e il lavoratore non dovrà usare mezzi digitali propri.
  • Gli aspetti legati al benessere delle aziende. Verranno definiti i comportamenti del lavoratore sanzionabili e la misura del controllo che il superiore può esercitare sui lavoratori che dirige (per esempio, monitorando l’effettiva connessione del dipendente negli orari di lavoro).

Molto c’è ancora da fare, ma forse è eccessivo affermare che lo smart working è la fine del lavoro e delle relazioni interpersonali sul posto di lavoro. Per gli scettici, un ultimo argomento. Nel rapporto dell’INAPP si legge che il 41,5% dei lavoratori sarebbe disposto, a fronte del lavoro da remoto, a trasferirsi lontano dai centri abitati in favore di luoghi a contatto con la natura. Lo smart working come incentivo al ripopolamento di zone che via via stanno diventando villaggi fantasma: non sembra affatto una cattiva idea.

 

 

A cura di

Benedetta Saraco


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