Come le echo chamber influenzano le emozioni

Che cos’è un’echo chamber

Il vocabolario Treccani definisce le echo chamber così: “Nella società contemporanea dei mezzi di comunicazione di massa, caratterizzata da forte interattività, situazione in cui informazioni, idee o credenze più o meno veritiere vengono amplificate da una ripetitiva trasmissione e ritrasmissione all’interno di un ambito omogeneo e chiuso. Questo risultato è particolarmente importante perché dimostra chiaramente come la tendenza ad aggregarsi con persone con le stesse attitudini e interessi sia un processo determinante sia nel rinforzare l’echo-chamber sia nel determinare la dimensione di un processo virale”.

L’echo chamber è lo spazio che abbiamo a disposizione sui social media. Ne fanno uso particolarmente i politici e le organizzazioni col fine di far circolare i propri messaggi per ricevere un ampio numero di consensi. Questo meccanismo purtroppo, però, vale anche per le bufale e per le fake news. Esso si amplifica poi quando la cerchia di amici o conoscenti del soggetto a cui appartiene il profilo condividono idee o pensieri simili. In questo modo sulla bacheca prevarranno notizie e commenti inerenti a ciò che ha precedentemente condiviso, i quali contribuiranno ad amplificare (ecco perché il termine “eco”) una visione univoca sull’argomento.

Lo stesso vale per le preferenze personali. Ad esempio, se abbiamo messo “mi piace” a una pagina che vende cosmetici, sarà probabile che sulla bacheca ci appaia una pagina analoga perché l’algoritmo si basa sulle nostre interazioni e azioni. Per questo, molto spesso, ci verranno suggerite pagine che rientrano nella nostra sfera d’interesse. Infatti, l’echo chamber è un fenomeno tipico dei social media che facilita la visione di contenuti che approviamo.

Come incidono le camere dell’echo

Indubbiamente, consciamente o non, ogni utente si ritrova in un echo chamber, potendo soltanto allargarla. Noi tutti siamo rinchiusi nella nostra camera dell’eco e ci ripetiamo a vicenda con i nostri amici e conoscenti opinioni di cui siamo già convinti.

Ecco che i social network sono sì una piattaforma di scambio, ma allo stesso tempo sono lo specchio in cui viene riflessa la nostra immagine. Il fatto che l’utente ritrovi postate sulla propria home page solo notizie o informazioni che sono di suo gradimento, fa in modo che queste diventino stanziali. Si sedimentano e rafforzano sempre di più il pensiero unilaterale e acritico.

Un ricercatore dell’Università Ca’ Foscari (Venezia), Walter Quattrociocche, che si è interessato allo studio di questo fenomeno ha proposto un esempio calzante: ha spiegato ipoteticamente che se un utente avesse manifestato più volte la preferenza verso un determinato ambito come la medicina omeopatica, non avrebbe mai trovato qualcosa a sfavore.

Gli effetti delle echo chamber sulle emozioni

Gli individui che al giorno d’oggi sono sempre più propensi a esprimere le proprie opinioni sanno di poterlo fare tra simili perché la linea di pensiero è comune. Attraverso questa azione soddisfano il proprio bisogno di appartenenza. Oltretutto poi, all’interno di questo spazio si sentono più liberi anche nell’uso del linguaggio e dei toni che spesso risultano accesi.

Le posizioni prese generalmente sono anche più estreme perché gli utenti sanno di poter godere di un certo sostegno da parte della community. Le echo chamber, infatti, molto spesso, portano a estremizzazioni e polarizzazioni di gruppo. In senso più ampio, fanno sì che l’informazione diventi imparziale e contribuiscono in larga parte a creare una condizione di misinformazione. Inoltre, le echo chamber incentivano l’isolamento e la chiusura mentale. Non a caso le persone – non essendo abituate a confrontarsi giornalmente con idee e opinioni che differiscono dalle loro o che addirittura le mettono in discussione – nel momento in cui un individuo all’interno di questa camera virtuale si rapporta casualmente con un’altra che ha una visione opposta alla propria, ha una reazione quasi scontata: toni aspri e tendenza ad alimentare l’hate speech, nonché la diffusione dell’odio in rete.

A cura di

Rebecca Brighton


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