L’alienazione ai tempi del web

“Io sono Zero”. Così si presenta il protagonista dell’omonimo libro di Luigi Ballerini. A portare questo nome bizzarro, in realtà diminutivo di due punto zero, è un ragazzo di quattordici anni che ha sempre vissuto in un mondo perfetto, sicuro, costruito su misura per lui. O è forse Zero a essere stato costruito su misura per il mondo?
Il dubbio si insinua nel ragazzo quando, per un guasto al sistema, si trova catapultato in una realtà che aveva visto solo nei film: la neve è pungente e assidera gli arti; la vetrina della pasticceria non è un touch screen dove poter scegliere la miglior pietanza; il cielo non ha un soffitto e l’aria che si respira riempie i polmoni fino a fare male.

Luigi Ballerini e l’alienazione

Luigi Ballerini – psicoanalista, scrittore e giornalista – scrive di scuola, educazione civica digitale e problematiche giovanili su quotidiani e periodici. Queste stesse tematiche sono anche al centro dei suoi romanzi, rivolti a bambini e adolescenti. Io sono Zero, pubblicato per Il Castoro nel 2015, è la storia di un ragazzo che vive in un mondo virtuale: il VWN, acronimo di Virtual War Network. Il VWN è un sofisticato programma di addestramento che ha lo scopo di creare uomini-macchine, affinché vadano a comporre un esercito di altissimo livello.

Per quattordici anni Zero ha sempre creduto che quella fosse l’unica realtà. Una realtà fatta di schermi, programmi di guerra in cui imparava a pilotare droni e distruggere obiettivi; una realtà priva di contatti e relazioni umane, in cui la notte serpeggia una nostalgia di qualcosa che non c’è e non si conosce. Quando Zero, per un errore, scoprirà il Mondo Fuori, sarà messo davanti a una scelta: tornare indietro, al sicuro ma di nuovo solo, oppure fare un atto di coraggio e immergersi nella vita reale.

Gli spunti riflessivi in Io sono Zero

Per quanto romanzata e distopica, la storia raccontata da Ballerini non è poi così tanto distante dal nostro presente e offre spunti di riflessione per fenomeni e criticità contemporanee legate al mondo del web. Il libro tocca tematiche ascrivibili all’interno del  vasto perimetro dell’educazione civica digitale. Senza mettere in dubbio – non è questa la sede né l’obiettivo – le immense potenzialità del web, ancora più immense se supportate da un’adeguata educazione civica digitale, non si può negare che un’assidua frequentazione del mondo virtuale possa accentuare il rischio di una percezione distorta del reale, di allontanamento fino a un vero e proprio stato di alienazione.

L’alienazione tra social e smartphone

Sempre più frequenti sono i cosiddetti extreme selfie, gli scatti immortalati a penzoloni sul ciglio della vita. Sulle nostre home di Instagram ne troviamo a bizzeffe: c’è che si immortala equilibrista sul grattacielo più alto di Dubai, chi si immerge in acque tossiche ma dal colore verde smeraldo, chi posa magnificamente lungo i binari del treno. 259 vittime è il Rapporto Italia 2019 sulle morti avvenute tra il 2011 e il 2017 nel tentativo di scattarsi un selfie. Non è necessario però spingersi a limiti così estremi per vedere vacillare la nostra presa con la realtà.

Gli smartphone, compagni fidati e inseparabili, offrono ogni giorno la sensazione di essere connessi con il mondo intero: una rete capillare e simultanea che ci collega con chiunque vogliamo collegarci. E allora perché si è sempre più soli? A rivelarlo è stata una ricerca a opera di Giuseppe Riva, docente di psicologia della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano ed esperto di educazione civica digitale. Secondo Riva, il numero degli amici reali di ciascun giovane diminuisce tanto quanto aumentano i contatti virtuali. Ogni volta che si china la testa sullo smartphone, ci si sottrae al contatto con la persona di fronte, si scappa dalla realtà per qualche secondo, chiudendosi in un guscio solipsistico e impenetrabile.

L’alienazione estrema: gli Hikikomori

Portando questa tendenza di chiusura in se stessi alle estreme conseguenze ci si imbatte in un fenomeno ben più grave nato in Giappone, dove negli anni è diventato endemico. Questo fenomeno dal 2007 si è diffuso anche in Europa e in Italia: parliamo degli Hikikomori. Questo termine letteralmente significa “stare in disparte, isolarsi”; dal giapponese hiku, “tirare” e komoru, “ritirarsi”. Gli Hikikomori sono adolescenti, per lo più maschi, che hanno preferito la loro camera arredata di schermi al mondo esterno, scrupolosamente attrezzati per una fuga dalla realtà.

Secondo Il Minotauro (organismo composto da un Istituto di Analisi dei Codici Affettivi, da una Cooperativa sociale e Fondazione, che opera circa i disagi giovanili e promuove progetti di formazione e prevenzione) in Italia sono stimati dai 30 ai 50 mila giovani reclusi, individuati soprattutto nelle grandi città del Nord.

Le cause dell’Hikikomori

Ma cosa spinge gli adolescenti a un gesto tanto estremo? Dalle diverse testimonianze di Hikokomori emerge che il sentimento scatenante sia molto spesso la vergogna. Una vergogna così paralizzante e totalizzante che porta a ridurre ogni rapporto con l’altro a comunicazioni tramite social network e videogiochi. La rete diventa allora un mondo protetto, in cui il pericolo è ridotto a zero, un guscio ovattato in cui si può stare al sicuro. Il web offre ai ragazzi la possibilità di costruire una vita fuori dalla vita.

Antonio Piotti, psicoterapeuta presso Il Minotauro, spiega il dibattito sul ruolo che gioca la rete nel fenomeno Hikikomori: è la causa o è l’effetto della patologia? Vedere la rete come unica causa scatenante è in parte eccessivo, perché alla base di un tale fenomeno non si può ignorare la presenza di una ferita non rimarginata, un trauma non superato. Il web offre a questi ragazzi una facile e apparente soluzione al loro disagio, aggravando in realtà la loro condizione e rendendo quell’integrazione sociale già complessa ancora più difficoltosa.

Risolvere il problema dell’alienazione

Quali possono allora essere le soluzioni, gli aiuti che si possono offrire ai ragazzi che soffrono di alienazione? Una strategia è quella di procedere su due fronti, sia a livello preventivo, sia consequenziale. Innanzitutto si dovrebbero integrare nelle scuole degli spazi dedicati all’educazione civica digitale e all’offerta di un supporto psicologico. Mentre per gli Hikikomori, che la scuola non la frequentano e spesso non hanno più rapporti neppure con i familiari, la salvezza potrebbe derivare dalla loro stessa prigione: la rete. Sarà compito del terapeuta cercare di entrare in contatto con loro attraverso la comunicazione virtuale, l’unica forma di contatto per loro possibile e accettabile, e affiancarli in un percorso di reinserimento e reintegrazione sociale. Essenziale è costruire per e insieme a questi ragazzi un’alternativa, una via che li possa ricondurre nel mondo, così come è stato per Zero.

 

A cura di

Camilla Longo Giordani


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