L’odio politico: una forma di hate speech

Nelle società di oggi una grande parte delle conversazioni avviene online, e tra queste anche molti dialoghi e dibattiti politici. Lo scambio di messaggi e informazioni via web è ormai diventato costante e pervasivo grazie, tra le altre cose, alla diffusione delle piattaforme social.

L’odio politico online

Secondo il Professor Giovanni Ziccardi, giurista e docente di informatica giuridica all’Università degli Studi di Milano, tra le forme di hate speech diffuse sul web rientrano anche le espressioni di odio politico. L’hate speech online è un fenomeno diffuso, che coinvolge innumerevoli utenti; liquido, in quanto difficile da contenere; pericoloso, perché è causa ed effetto di un cambiamento culturale che porta discriminazione e intolleranza sia online che offline.

A oggi, le parole che incitano all’odio online sono molte e costituiscono un problema esteso, che colpisce i più vulnerabili sulla base delle loro origini, della loro religione, della loro identità di genere, del loro orientamento sessuale, delle condizioni socio-economiche e dal loro aspetto. La gravità del fenomeno, tuttavia, è soprattutto dovuta al fatto che molto spesso l’hate speech è incitato e promosso da personaggi politici, che danno il via a una cascata di violenza verbale online.

Il barometro dell’odio

In occasione delle elezioni politiche italiane del 2018, Amnesty International ha sviluppato uno strumento per la misurazione del discorso d’odio in rete propagato dai politici sotto campagna elettorale, denominato il barometro dell’odio. Nello specifico, quest’analisi prende in considerazione sia dati qualitativi che quantitativi che indicano la gravità dell’hate speech e ne elencano i bersagli principali. A differenza di altre tipologie di analisi, questa ha convolto 600 attivisti distribuiti su tutto il territorio nazionale per monitorare, durante un periodo di tre settimane, i profili Facebook e Twitter dei candidati.

Le principali conclusioni del lavoro di osservazione diretto dall’organizzazione riguardano i ventitré giorni monitorati. Sono state raccolte 787 segnalazioni, ovvero più di un messaggio d’odio all’ora, soprattutto provenienti dalla regione Lombardia. Queste segnalazioni sono state attribuite a 129 candidati unici, di cui 77 sono stati effettivamente eletti. Inoltre, è interessante sottolineare come il 43,5% delle stesse sia pervenuto da leader. Per fare una classifica: il 51% delle segnalazioni è da attribuire alla Lega; il 27% a Fratelli d’Italia; il 13% a Forza Italia; il 4% a Casa Pound; il 3% a L’Italia agli Italiani e il 2% al Movimento 5 Stelle. In aggiunta, questi candidati hanno usato soprattutto Facebook, da cui è pervenuto il 73% dei messaggi monitorati, che nella maggior parte dei casi erano pubblicati sotto forma di post testuali.

Per quanto riguarda le tematiche principali, il fenomeno migratorio è stato il tema centrale di tali incitazioni all’odio (91% dei post); ma troviamo anche tematiche di discriminazione religiosa, riguardo l’orientamento sessuale e la discriminazione di genere. Nello specifico, il 7% delle segnalazioni inneggiava direttamente alla violenza, mentre il 32% di esse ha veicolato fake news e dati alterati.

Necessità di reagire

Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, ha dichiarato che troppo spesso alcune forze politiche si sono servite di stereotipi e incitazioni all’odio per fare propri diffusi sentimenti populisti e xenofobi, promuovendo la diffusione di un linguaggio divisivo e discriminatorio, che definisce la diversità come una minaccia. Per questo motivo, è necessario adottare strategie per monitorare le attività sul web e regolamentarne l’utilizzo, soprattutto da parte del politici durante la campagna elettorale. In particolare, il regolamento europeo sulla protezione dei dati del 2018 aveva come obiettivo quello di rimettere il controllo nelle mani degli utenti e di regolamentare il labirinto di libertà e automatismi del web.

Infatti, l’idea che il 2 luglio 2018 si siano insediati onorevoli che hanno fomentato l’odio attraverso i social media e che hanno aizzato li loro followers con incitamenti espliciti all’odio, oltre i limiti del dibattito civile, rappresenta purtroppo un passo indietro considerevole nella lotta contro l’hate speech. Sicuramente, il controllo sulle piattaforme digitali non deve sfociare nella censura, anche perché il cambiamento non si otterrà di certo con l’inserimento di sanzioni o regole, ma con un’evoluzione culturale e un percorso di educazione civica digitale. Effettivamente, solo una società civile informata può contrastare certi slogan e, nel caso specifico, l’utilizzo scorretto delle piattaforme social.

 

A cura di

Silvia Crespi


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